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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonio Borgia
Qual é l’ultima cosa che ci si aspetta da criminali votati alla violenza, alla sopraffazione e all’illegalità diffusa? Sicuramente la manifesta religiosità, la frequentazione delle chiese nonché l’atteggiamento di devozione verso la Madonna e i Santi.
Ebbene, tutto quanto descritto ha sempre caratterizzato gli affiliati alle maggiori mafie italiane, in special modo cosa nostra siciliana e ‘ndrangheta calabrese, fin dalla loro costituzione nella prima parte del XIX secolo, sfruttando soprattutto l’arrendevole atteggiamento e il perdurante silenzio della Chiesa e delle diocesi locali – almeno fino al 1992- che ha consentito ai boss di strumentalizzare, a loro favore, l’uso della religiosità per ottenere la necessaria legittimazione e il consenso popolare.
Così, per lungo tempo hanno partecipato alle celebrazioni eucaristiche, magari affianco ai notabili cittadini, e alle processioni religiose, donando denaro e gioielli alle statue trasportate a spalla nonché ottenendone l’inchino davanti alla propria abitazione.
Talvolta, le soste strategiche delle processioni servivano, come accadde negli anni ’50 a Riesi (Caltanissetta), nel corso della festa di San Giuseppe, a rendere palese il passaggio di consegne fra padre e figlio alla guida del clan; nell’occasione, l’anziano boss Giuseppe Di Cristina, presente con la famiglia sul balcone della propria casa, abbracciò il figlio Francesco e si ritirò all’interno, lasciando all’erede l’autorizzazione a far riprendere la cerimonia.
Giovanni Fasanella, nel suo libro Una lunga trattativa, ricorda come lo scrittore Enzo Ciconte abbia raccontato che, a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, il parroco del quartiere palermitano di Villagrazia, nel periodo delle feste pasquali, era solito officiare la Via Crucis nel fondo dei Bontate, una delle famiglie mafiose più potenti dell’epoca.
La sociologa Alessandra Dino, a tal proposito, nel 1998, ha scritto che «Quella processione rituale appariva come un omaggio alla potenza e al prestigio dei Bontate e, nel contempo, segnalava il reciproco rispetto fra il capomafia e il rappresentante locale della Chiesa».
Da sottolineare poi, come segnala lo studioso Isaia Sales, che molti mafiosi più istruiti avevano studiato dai preti o dalle suore, servito messa, frequentato il catechismo, sognato di indossare l’abito talare (come Raffele Cutolo, boss della Nuova Camorra Organizzata napoletana), vissuto nelle case di parenti sacerdoti o studiato teologia.
Addirittura, Pietro Aglieri, giovane e colto braccio destro di Bernardo Provenzano –successore di Totò Riina alla guida di cosa nostra-, con studi al seminario di Palermo e al liceo diocesano di Monreale, nel suo covo di latitante aveva realizzato una cappella privata con inginocchiatoi, utilizzata per pregare e per le celebrazioni di messe periodiche da parte di religiosi compiacenti.
Diversamente da altri cattolici, i mafiosi, pur violando tutti i comandamenti ed i precetti dell’etica cristiana, hanno goduto di «comprensione permanente» e non sono mai stati oggetto di pubbliche reprimende fino ad epoca recente.
Per un lunghissimo tempo, infatti, nessun parroco si é mai posto il dubbio se potesse o meno sposare un mafioso riconosciuto, battezzarne i figli, erogare i sacramenti od officiarne le esequie religiose. Probabilmente, era più pratico e conveniente accettare i finanziamenti per ristrutturare le chiese o fare beneficenza.
Così é accaduto che, durante i funerali di famosi boss, i parroci li abbiano anche ricordati con irrituali e roboanti frasi atte a magnificarne la vita e le opere, come nel caso dei due capimafia siciliani Calogero Vizzini (1954) e Francesco Di Cristina (1961).
Da cosa può essere derivata tale permanente e visibile religiosità dei mafiosi?
Occorre segnalare, a tal proposito, che la stessa storia delle organizzazioni criminali italiane si nutre di leggende di origine religiosa.
Cosa nostra, secondo molti dei suoi appartenenti e alcuni studiosi, deriverebbe dalla setta dei Beati Paoli, costituita nel XVI secolo ed operante a Palermo e Trapani, che difendeva e vendicava gli oppressi.
I suoi appartenenti sembra si mostrassero devoti e fossero soliti, di giorno, camminare vestiti come i monaci di San Francesco di Paola, frequentare le chiese e recitare il rosario per acquisire informazioni.
Per quanto concerne la camorra, invece, si ritiene che sia nata nella chiesa napoletana di S. Caterina a Formello, nel 1820, e che nella stessa, il 12 settembre 1842, nella riunione di tutti i capintesta dell’Onorata Società, fosse stato approvato il Codice Frieno contenente 26 articoli che regolamentarono la vita e l’attività dell’organizzazione.
A fattor comune, vi é poi la leggenda dei tre fratelli e cavalieri spagnoli (Osso, Mastrosso e Carcagnosso, rappresentanti Gesù Cristo, San Michele Arcangelo e San Pietro), che, rilasciati dal Carcere di Favignana nel XV secolo, si divisero e fondarono le tre maggiori organizzazioni in Sicilia, Calabria e Campania.
Tutte le cerimonie di affiliazione alle varie organizzazioni e relativo giuramento comprendono immancabilmente il richiamo alla religiosità.
Il rito del battesimo a cosa nostra prevede la caduta di alcune gocce di sangue, dopo l’incisione del dito indice, su un’immagine sacra, di solito quella della Madonna dell’Annunziata, a cui viene dato fuoco.
Anche per l’ingresso nelle ‘ndrine, l’immagine sacra è fondamentale nella cerimonia e viene bruciata nel corso del giuramento. Di norma, si fa riferimento alla Vergine Addolorata, custode dell’onore degli ‘ndranghetisti.
Da non dimenticare il grado di santista, per la Società Maggiore di ‘ndrangheta, con un iniziale numero limitato da assegnare (33), secondo lo studioso Ciconte, per ricordare gli anni di Gesù Cristo.
Nella Sacra Corona Unita pugliese, per il giuramento sembra sia stato utilizzato il santino di San Michele Arcangelo.
Questo “bisogno” di religione degli appartenenti alle organizzazioni mafiose italiane è, anche, dimostrato dai documentati pellegrinaggi periodici svolti dagli affiliati.
Isaia Sales li cita nel suo libro «I preti e i mafiosi»:
– il Santuario della Madonna dell’Arco a S. Anastasia (NA), per la camorra;
– il Santuario della Madonna di Tindari, a Patti (ME), il Duomo di Sant’Agata a Catania e il Santuario di Santa Rosalia a Palermo, per i membri di cosa nostra;
– il Santuario della Madonna di Polsi, nel comune di S. Luca (RC), per la ‘ndrangheta, famoso per la riunione annuale dei capibastone, ai primi di settembre e dalla fine dell’800, necessaria per l’elezione del Capocrimine provinciale. Per molto tempo, alla fine della festa, gli ‘ndranghetisti usavano giustiziare coloro che i Tribunali delle cosche avevano giudicato infami, lasciando i cadaveri nelle vicinanze.
Per comprendere il modo di pensare dei mafiosi, inquadrato nel momento storico dei rapporti con la Chiesa, é chiarificatore il dialogo fra il Capitano Bellodi dei Carabinieri e il boss Mariano Arena, presente nel famoso romanzo Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, pubblicato nel 1961 e ambientato in un piccolo paese siciliano:
– “Certi suoi amici dicono che lei è religiosissimo”
– “Vado in chiesa, mando denaro agli orfanotrofi…”
– “Crede che basti?”
– “Certo che basta: la Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio”.
Innumerevoli le riprove di una robusta religiosità, reale o meno, palesata dagli appartenenti alle mafie, in special modo da molti collaboratori di giustizia che ne hanno rivendicato l’autenticità.
Come scrisse, nel 2006, il futuro Procuratore Generale della Repubblica di Palermo, Roberto Scarpinato: «Quando ho iniziato a frequentare gli assassini – i mafiosi, i capi mafia, i loro potenti complici – mi sono accorto che non solo erano cattolici, ma che erano più cattolici di me: non simulavano di essere cattolici e credenti, lo erano davvero».
In un’intervista concessa per il documentario «Chiesa Nostra» di Antonio Bellia (presentato a Palermo il 5 marzo 2024), Scarpinato ha raccontato che il collaboratore di giustizia Gianni Drago si recava in Chiesa dopo ogni omicidio, per chiedere perdono a Dio.
Isaia Sales ha ricordato che il killer di Padre Puglisi, Salvatore Grigoli, rivelò l’uso di uccidere «In nome di Dio» da parte di molti affiliati a cosa nostra.
Come segnalato dallo scrittore Elio Camilleri nel suo libro Schegge di storia siciliana, nel 1982, in occasione della visita di Papa Giovanni Paolo II a Palermo, l’auto di apertura del corteo papale era guidata dal noto mafioso Angelo Siino, ex pilota di rally, cattolico convinto, poi divenuto «Ministro dei lavori pubblici» di cosa nostra e, successivamente, collaboratore di giustizia.
Anche nei luoghi ove si nascondevano importanti boss sono stati rinvenuti, al momento della cattura, bibbie, rosari, libri, immagini sacre, santini e statuette.
Ricordiamo, a tal proposito, Bernardo Provenzano che scriveva «pizzini», mandando anche benedizioni, rifacendosi a frasi della Bibbia o del Vangelo, anche per utilizzare la religione come forma di legittimazione per la nuova cosa nostra, come segnalato dal magistrato Nino Di Matteo nel libro Collusi, Benedetto Santapaola, Carmine Alfieri, Giuseppe Piromalli e Michele Greco. In pratica, il tentativo di “orientare la Chiesa in direzione dei propri interessi personali”.
Il 19 giugno 2024, dopo l’arresto di numerosi trafficanti di cocaina sull’asse Calabria-Sicilia, a seguito dell’inchiesta “Devozione” della Direzione distrettuale antimafia di Catania, sono stati rinvenuti un’immaginetta della Madonna di Polsi nella cover del cellulare del fornitore calabrese di cocaina nonché il rosario nelle tasche di diversi corrieri della droga.
Come non ricordare la drammatica, romanzata, ma verosimile scena della serie tv «Gomorra» in cui il camorrista uccide, per ordine del suo boss, la figlia adolescente del rivale (per colpirlo negli affetti più cari) dopo aver baciato il crocifisso appeso al collo, quasi per chiedere anticipatamente perdono?
Lo storico Antonio Nicaso, coautore del libro Acqua santissima. La Chiesa e la ‘ndrangheta: storie di potere, silenzi e assoluzioni, in un’intervista del novembre 2013, ha segnalato che la ‘ndrangheta «ha sempre avuto bisogno di una legittimazione sociale che ha trovato nella Chiesa, ottenendo consenso e visibilità sul territorio. Basti dire che le processioni sono state funzionali a logiche di potere: per molto tempo gli ‘ndranghetisti si sono contesi il privilegio di portare a spalla il fercolo del santo patrono, e spesso le processioni sono state utilizzate per presentare alla cittadinanza i nuovi affiliati».
Nello stesso libro, scritto con Nicola Gratteri, allora Procuratore della Repubblica di Catanzaro, viene affermato: «Questa attenzione verso i santi e verso la Chiesa è sempre esistita nella ‘ndrangheta, secondo la logica tipica di molte organizzazioni criminali, quella logica secondo cui ogni violenza, anche la più feroce, abbisogna di una sua sacralità. Quindi, gli ‘ndranghetisti hanno utilizzato la religione anche in chiave di autoassoluzione, si sono creati un Dio a propria immagine e somiglianza……il Dio degli ‘ndranghetisti è un Dio tollerante e che giustifica, un Dio che libera gli assassini dal senso di colpa…….Hanno mutuato la loro ritualità dalla liturgia ecclesiastica. Hanno utilizzato nomi come il Vangelo o la Santa per identificare alcuni ranghi importanti all’interno della ‘ndrangheta. I sacramenti sono stati sottoposti alle logiche di potere dei clan, servendo a sancire alleanze. Insomma, la religione cattolica è stata violata, usurpata, strumentalizzata dalla ‘ndrangheta per tanto tempo”.
Rivelatrice, infine, la vicenda narrata nel citato libro sulla cessazione della lunga faida calabrese di San Luca che aveva condotto alla strage di Duisburg (Germania) del 15 agosto 2007. In una conversazione intercettata, gli investigatori appresero che le famiglie contrapposte vennero indotte a fare la pace proprio in occasione della Festa della Madonna di Polsi perché “Lo vuole la Madonna”.
Il particolare rapporto dei mafiosi con Dio é clamorosamente stato dimostrato quando gli investigatori del Ros, dopo la recente cattura del boss Matteo Messina Denaro, hanno rinvenuto un “pizzino” a sua firma, scritto nel 2013 e in previsione di una eventuale morte.
Queste alcune frasi: «Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato…. Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime, non saranno questi a rifiutare le mie esequie…. Il rapporto con Dio è personale, non vuole intermediari e soprattutto non vuole alcun esecutore terreno… ritengo che il mio rapporto con la fede é puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia, il mio perdono, la mia spiritualità…».
La strana coabitazione Chiesa-mafie, in alcuni territori meridionali, cambiò radicalmente il 9 maggio 1993 quando Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi di Agrigento, davanti a centomila fedeli, definì gli uomini di cosa nostra “espressione della cultura della morte” nonché “un peccato sociale”, pronunciando la famosa frase “lo dico ai responsabili: Convertitevi, anche per voi verrà il giudizio di Dio!».
L’enorme e inaspettato attacco del Pontefice mise sicuramente in grave imbarazzo boss e gregari, distruggendo la falsa rappresentazione di buoni cattolici costruita nel tempo, sensibilizzato le coscienze dei cittadini e indicato la strada ai tanti sacerdoti che fino a quel momento avevano avuto timore di ribellarsi alla presenza delle organizzazioni criminali.
La rabbiosa reazione di cosa nostra é ormai nota a tutti: le autobombe del 27 luglio 1993 alle Chiese romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, gli omicidi di Don Giuseppe Puglisi a Palermo e Don Giuseppe Diana a Casal di Principe (“colpevoli” di cercare di salvare i giovani dalle mire criminali), le minacce a molti sacerdoti e ai Vescovi per i divieti e le limitazioni imposti nelle processioni.
L’anatema del Pontefice polacco é stato poi ribadito da Papa Francesco, il 21 giugno 2014 nella Piana di Sibari, con la scomunica per gli uomini della ‘ndrangheta perché non in comunione con Dio e in quanto la mafia calabrese é “adorazione del male e disprezzo del bene comune”.
Malgrado queste tremende condanne morali e a dimostrazione di come la religione continui ad essere considerata un “valido grimaldello” per ottenere il consenso della popolazione nonché strumentalizzare la fede popolare, sono stati accertati molti tentativi di esportare le processioni religiose in regioni settentrionali ove si sono radicate le ‘ndrine.
Uno degli ultimi esempi è quello della processione dell’«Affruntata» o dell’incontro fra San Giovanni Apostolo e la Madonna, di lunga tradizione, seguita sempre da migliaia di fedeli in Calabria, giunta anche in Piemonte, nel comune di Carmagnola (Torino) e svolta con la presenza dei più importanti capi ‘ndranghetisti della zona.
In questi casi, addirittura, le statue vengono trasportate direttamente dalla Calabria al fine di una più efficace dimostrazione di forza e compattezza.
Cosa occorre fare per scindere definitivamente questo connubio profano fra crimine e religione, delegittimando le organizzazioni mafiose ormai insediate anche nelle terre non di origine? Semplicemente il proprio dovere di cittadini e di appartenenti alla Chiesa: abbandonare e isolare chi persegue il male, negare il consenso e, soprattutto, informare costantemente e capillarmente circa il pericoloso fenomeno insinuatosi nella nostra vita quotidiana.
Siamo tutti in grado di affrontare questa sfida di civiltà?