Dov’è l’America di cui la generazione dei nati tra il 1946 ed il 1964 si è innamorata?
Quella terra simbolo di libertà, di potenzialità, di fiori e vento tra i capelli?
“On the road” e “Easy rider”, grandi moto chopper e caschi a stelle e strisce, campus pieni di ragazzi e di promesse, “Up with the people” e “Born to be wild”.
Quell’America che nei giochi di bambini faceva proseliti nei cow boys belli, biondi e di gentile aspetto in lotta contro gli indiani, scuri, con nasi aquilini, strani diademi con piume di uccelli, asce di guerra e praterie di Manitu’?
Quell’America che a metà anni ’60 ha spedito i figli migliori ad una “sporca guerra” contro i musi gialli del Vietnam vedendoli tornare accatastati nelle “death bags”? il consueto prezzo del vecchio gioco del ruolo dei poliziotti del mondo.
Dov’è Martin Luther King nelle dolci, cantilenanti parole piene di malinconia su di un sogno, un sogno profondo nel ventre del sogno americano?
Dov’è il tailleur rosa macchiato dal sangue del “ragazzo yankee” di origini irlandesi che incarnava l’entusiasmo, la bellezza, il positivismo ed il calvinismo americano esplosi con le pallottole di Lee Oswald e impressi negli occhi sbarrati del fratello Robert ucciso nel 1968?
E i leader del pacifismo nei campus, gli hippies di San Francisco, i reduci “nati il 4 luglio” e gli elmetti “Born to kill” dove sono scomparsi?
E i singhiozzi impolverati del “We are all Americans” tra lo sgomento e lo stupore del crollo del mito dell’invincibilità sbriciolato con le Twin Towers al tramonto dell’11 settembre, le lacrime, l’empatia, la pietà in quale gorgo sono state ingoiate?
Nell’inverno 2003 Daniel Pipes scriveva pagine crude grondanti verità: “Perchè il mondo detesta l’America”.
E all’improvviso (ma non troppo) quella generazione che sognava la California si è resa conto che i cowboys biondi e di gentile aspetto avevano massacrato i nativi americani chiudendo i superstiti e i loro discendenti nei ghetti, esibendoli nelle riserve come in giardini zoologici della disperazione, gonfiandoli di alcol e di promesse mai mantenute.
I ragazzi caduti in Vietnam sono nomi incisi nel lungo muro di marmo nero a Washington e i reduci scrivono ricordi pieni di suoni e di fantasmi in uno dei blog più strazianti del web: Nam VET.
Poi sono arrivati i veterani dell’Iraq, dell’Iran, dell’Afghanistan, di tutte le guerre e le battaglie perse in nome della mission della unificazione di civiltà troppo diverse, troppo lontane, figlie di valori differenti a volte indomabili e assetate di terrorismo, a volte semplicemente incomprensibili per un occidentale.
I Presidenti “born in USA” con il passare degli anni hanno iniziato a somigliarsi più o meno tutti: comunque espressioni di poteri forti, dollari potenti, economie e finanziamenti per il potere, satelliti di gruppi di elite – tipo Skull and Bones – che velavano club o circoli di poteri con vocazioni decisionali trascendentali.
Fino alle discussioni quotidiane tra due ottantenni, espressioni della politica made in USA, con i lineamenti stirati da botox, lifting, tinture e make up da finti giovani. Cervelli invecchiati malamente tra dolori, depressioni, arroganze sopite. Specchi deformanti della democrazia.Alle spalle persino la farsa di un attacco a Capitol Hill.
Più biondo che mai, sempre più simile ad un personaggio pirandelliano, sopravvissuto ad un attentato, Trump è l’uomo da battere: il candidato che potrebbe guidare le rovine fumanti dell’american dream negli anni a venire.
E’ supportato da J.D.Vance, un vice con un passato da povero, autore di un libro autobiografico, con un presente politico oscillante tra ricordi, sogni, contraddizioni e pentimenti. Carisma, poco.
Non che la sfidante dem sia messa meglio: Kamala Harris, ex Procuratore della California, secondo i detrattori “gattara”, poco politica, poco loquace e ancor meno convincente, potrebbe giocare la carta della discendente di “sangue misto”.
Le origini asiatico-africane ne fanno un eccellente prodotto da melting pot, non ancora un Presidente del Mondo Atlantico in pectore.
Anche i sogni di Hollywood diventano incubi di Fentanyl sui marciapiedi del Boulevard.
E rock, country, blues e jazz si affidano soprattutto a YouTube e a immagini del passato.
Ecco la metafora di “C’era una volta l’America”: la cannibalizzazione e la banalizzazione di un sogno coriandolarizzato, infranto contro una realtà che svela ogni giorno il trucco dell’illusionista.
La magia dura un battito di ciglia e davanti agli occhi, cresce la necessità di un mondo migliore in cui l’America può e deve avere un ruolo autonomo, consapevole e libero interpretato con etica e democrazia vera.
Non c’è più l’american dream, ma non é possibile rinunciare all’incontro delle acque tra Oceano Atlantico e Mar Mediterraneo per la salvezza del pianeta Terra.
Senior Osint and Media Analyst. Ha praticato il mondo delle investigazioni e dell’intelligence. Appassionata di mare cani rock e figlia non necessariamente in quest’ordine.