Cuore & Batticuore
Rubrica settimanale di posta storie di vita e vicende vissute
by Valeria D’Onofrio
Un giorno, poi, impari ad andartene. Ad andartene e non tornare.
Ad andartene, non tornare e non soffrire. Ad andartene, non tornare, non soffrire e non avere rimpianti.
È il giorno in cui metti insieme tutti i tentativi fatti sfidando te stessa. Perché è sempre con te stessa che devi combattere. E tra quelli c’é anche l’ultimo.
È lì, in alto, in cima a tutti gli altri. Ma certo, prima non potevi saperlo. Non sai mai quando è l’ultimo. Quando quella distanza a strappi, che hai provato a mettere tra te e la tua dolenzia, sarà diventata definitiva.
Perché ogni volta avevi promesso che lo sarebbe stata. Ma non avevi mantenuto. Non avevi mantenuto il punto, la convinzione, non avevi sopportato la lacerazione. E avevi ricucito. Con l’ennesimo, ultimo, maldestro tentativo.
Ma eri già in cammino verso la “lontananza”, in un moto spontaneo, muto e invisibile. È il poi che te lo svela. Non il prima. Non il durante. Il Poi.
Nel Poi ti sei accorta che era stato anche prima. Che esiste una salvifica progressione, involontaria, con la quale hai imparato ad allenare la lontananza, sollevando il peso di spazio e tempo.
In principio é difficile, difficile, ma necessario. Poi prendi dimestichezza. Abitudine no, quella forse mai, diventi solo più consapevole, fiduciosa. Diciamo… più pratica.
E lasci lavorare quel tempo e quello spazio; e sai che seppur qualche volta ti opporrai a te stessa, al fluire naturale dell’allontanamento, quello avverrà, anche senza il tuo consenso, ogni volta che avvertirai di non essere nel posto giusto, nell’emozione giusta, nell’ora giusta. In quel disagio, in quel vuoto di reciprocità, anche un minuto sarà infinito. Ed è allora che sceglierai di andartene, per fermarti solo “dove tutto è reciproco”.
Il pensiero ossessivo si sbriciolerà. Si sbricioleranno i ricordi, le proiezioni, i desideri, il bisogno, il sogno, la pena.
Perché ormai hai imparato ad alzarti e andartene. E, senza neppure accorgertene, zoomerai la scena, entrandoci talmente dentro da vederla sgranarsi, fino a non riconoscerne più alcun tratto. Fino ad attraversarla, a trapassarla, per ritrovarti, infine, dall’altra parte. Portandoti dietro solo l’inconfondibile malinconia dell’indifferenza.
Succede quando capisci o senti che dove stai non stai bene, che quella relazione affettiva, ma anche lavorativa, ti sta togliendo qualcosa, che é più di quanto ti stia dando.
Di solito la tua parte istintiva lo avverte prima di quella cognitiva, ma non gli dai ascolto. E provi, e provi… provi a staccarti finché un giorno non riesci finalmente a farlo perché lo stillicidio d’allontanamenti ha rappresentato una sorta di allenamento.
Con il passare del tempo e l’esperienza, impieghi sempre meno tempo a staccarti da ciò che non fa per te. E sempre meno tempo a smettere di soffrire, a riposizionarti.
Quando una cosa ti fa del male ora sai che devi mettere tempo e spazio (fisico) tra te e lei. E ti libererai da quel disagio che è al tempo stesso un dolore.
E quando ne sarai fuori, proverai la malinconia dell’indifferenza. Perché in quella cosa ci avevi creduto, investito, sperato… credevi quasi di non poter fare senza. Ora ti accorgi che non é così e prenderne atto genera una forma di tristezza.
Qualcosa del tipo…“Piango perché non ti amo più” perché credevo di non poter vivere senza di te e invece sei diventato trasparente… ecco.
Anatomia di un distacco, di un addio, di una fuga? In realtà si tratta di una vera e propria elaborazione di un diverso tipo di lutto. In questo caso la perdita riguarda se stessi, in relazione al fallimento di un rapporto sentimentale o di un lavoro nel quale si credeva profondamente, tanto da dedicarvisi con tutta l’anima. Una delusione talmente dolorosa da richiedere un processo di rimozione che solo una coraggiosa ripianificazione della propria esistenza può far superare. Secondo gli psicologi l’unico modo per rimarginane anche le ferite di questo tipo di lutto é infatti quello di razionalizzare la situazione e seguire l’istinto di sopravvivenza. Il tempo é fondamentale, perché il dolore non scomparirà da un momento all’altro, ma affievolendosi rafforzerà la capacità di autoanalisi e la personalità, trasformando talvolta l’esperienza in un vantaggio.