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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Bice Agnello*
Ho visto ieri pomeriggio Parthenope. Impressioni immediate: per me, un bel film, racchiuso fra due battute, che posso citare solo imprecisamente, entrambe del grandissimo Silvio Orlando, nella parte di un professore di antropologia.
La prima la dice all’inizio ai suoi studenti, ed é più o meno “per avere risposte, bisogna saper fare le domande”;
la seconda é verso la fine, la dice a Parthenope ed é, molto imprecisamente, “che cos’é l’antropologia si può capire solo nella vecchiaia, quando sono passati i desideri. L’antropologia é vedere”.
In mezzo, a proposito di queste due battute, c’è John Cheever, notevolissimo scrittore interpretato da un bravissimo Gary Oldman, che nella sua opera appunto sa “vedere”, cosa che si riesce a fare solo se si sanno fare le domande a quel che si ha davanti.
Il corpo del film é Napoli con la sua bellezza, una sua libertà sensuale, le sue contraddizioni. Ma Parthenope non è solo un film su Napoli, é un film che parla dell’esistenza. Secondo la “visione” e le “visioni” di un autore napoletano, colto, non folcloristico né provinciale.
Poco prima di entrare nel cinema, avevo letto la recensione di Goffredo Fofi. Quando Fofi cita La Capria e Malaparte vede giusto, giustissimo. Quando dice però che “il film di Sorrentino non scava in niente e non dimostra un senso della Storia, ma purtroppo ha un senso fragile anche della Poesia” fa un’affermazione apodittica, che andrebbe invece argomentata.
La Storia in una narrazione cinematografica, come in un romanzo, non si deve necessariamente avvalere delle stesse pezze d’appoggio sociologiche di Fofi.
E che cos’è la Poesia? Se si dice che non c’è poesia, il minimo é spiegare anche sinteticamente perché lo si dice. Ormai da tempo però, purtroppo, Fofi non ritiene più necessario argomentare, ma solo prendere posizione.
E comunque, Sorrentino non avrà l’occhio del poeta, ma quello dell’antropologo che vede, nel suo caso anche da visionario, ce l’ha.
Piccola nota, non sul film ma sulla recensione che ho citato. Fofi è un critico che ho sempre seguito con la massima considerazione, ma quando dice che Sorrentino si potrebbe definire “un chiattillo” – cioè in definitiva”, un figlio di papà, uno “di buona famiglia” – vorrei fargli notare che questa definizione di marca populista non è una categoria critica ma una gratuita volgarità di quelle che vanno di moda oggi a destra.
Vorrei fargli notare che anche La Capria, che Fofi apprezza e che comunque anche senza il gradimento di Fofi rimarrebbe un notevolissimo scrittore, socialmente era un altoborghese; vorrei ricordargli che molti attivisti degli anni Sessanta e Settanta erano “chiattilli”, e questo non gli impediva di essere spaesati nel loro status sociale e ribelli.
Queste sprezzanti aggressioni lasciamole stare alla destra populista, che un artista sia un benestante delle ZTL o un underdog della Garbatella non ci dice nulla sulla sua opera, ma solo sulla spocchia livorosa di chi le pronuncia.
*Beatrice Agnello, Docente di scrittura narrativa, critica letteraria, autrice, curatrice ed editor