Cuore & Batticuore Rubrica settimanale di posta storie di vita e vicende vissute
by Augusto Cavadi
Sono soddisfatto della mia vita personale e sociale? Ogni tanto faremmo bene a interrogarci. Sappiamo che può essere doloroso perché, anche quando si avesse il privilegio di vivere un discreto equilibrio psico-fisico-economico, ci vuole una scorza davvero dura per restare indifferenti rispetto alle guerre, alle epidemie, ai disastri ecologici, alle sperequazioni tra pochissimi arricchiti e moltissimi impoveriti.
Tuttavia rimuovere, negare i motivi della propria infelicità – uso i verbi in senso non psicanalitico perché mi riferisco a processi consapevoli e intenzionali, non inconsci – é molto più rischioso: può incarognirci.
In proposito Kierkegaard ha osservato che di solito supponiamo che la gente sia infelice perché é malvagia, ma in realtà diventiamo malvagi perché siamo infelici. Dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia le ragioni della nostra condizione d’infelicità.
Sino a mezzo secolo fa questo coraggio era meno difficile: quasi tutti avevamo delle mappe orientative per trovare – o sperare di trovare – indicazioni salvifiche. Per uno era la politica, per un altro la religione (cristiana o orientale)…
Ma oggi le “grandi narrazioni” sono in crisi. Ionesco l’ha detto con una formula fortunata: “Dio è morto, Marx è morto e – se devo essere sincero – neppure io mi trovo molto bene”.
Già, neanche la chiusura a riccio si rivela risolutiva: non abitiamo più case, più o meno aperte, ma appartamenti dove ci ‘appartiamo’ in cerca di privacy; ma, come ha osservato Hanna Arendt, una vita privata é ‘privata’ di relazioni essenziali.
Da dove cominciare nel disorientamento generale? Dalla radice. Dalla nostra soggettività. “Sii tu il cambiamento che vuoi per il mondo” esortava Gandhi. La coltivazione della propria persona, l’attenzione per farla “fiorire” (come ama dire Martha Nussbaum), possiamo chiamarle anche “spiritualità” a patto di intendere questo termine non in un senso teologico-confessionale, ma come dimensione antropologica universale.
La spiritualità basica può essere rappresentata con la metafora del respiro che è costituito dal doppio movimento dell’ in-spirare e dell’ e-spirare.
Con in-spirazione alludo al movimento verso la propria interiorità: alla ricerca della quiete, del silenzio, della riflessione critica…” Tutte le disgrazie originano dalla nostra incapacità di stare fermi e zitti per dieci minuti in una stanza” recita grosso modo uno dei Pensieri di Pascal. I leader mondiali, sino ai politici locali, si concedono dieci minuti al giorno di raccoglimento meditativo? E noi?
Il movimento verso l’interno, come nel respiro, va completato con il movimento ad extra: non si tratta di concentrarsi sul proprio ombelico, ma di recuperare le energie per vivere intensamente la propria socialità. Ci sarebbe un vocabolo per denotare lo spettro delle nostre relazioni con l’altro – “amore” – ma è ormai inflazionato.
Posso precisare che esso è polivalente e che si articola in (almeno) tre dimensioni: l’eros, l’amicizia e l’ agape.
L’eros è l’amore di desiderio per qualcuno o qualcosa che ci manca, di cui abbiamo bisogno, che ci attrae svegliando le nostre passioni: l’eros sessuale ne è forse la cifra più emblematica, anche se certo non l’unica.
L’amicizia è l’amore tra pari, l’amore di reciprocità in nome di valori o interessi comuni.
Tutte le culture, la cristiana in particolare, conoscono una terza versione dell’amore: l’agape, l’amore di donazione, radicato nella gratuità, dal momento che il donatore dà sapendo di non ricevere contraccambio.
C’è un bel testo tibetano che, in forma metaforica, tratteggia questa forma di amore (non più elevata delle altre due, ma altrettanto necessaria per una vita spirituale matura):
“Offro il mio corpo perché sia consumato.
Dono la mia carne a quelli che hanno fame,
il mio sangue a chi ha sete,
la mia pelle per rivestire gli ignudi,
le mie ossa come combustibile per chi ha freddo.
Offro la mia felicità agli sventurati,
il mio respiro vitale per rianimare i moribondi”.
Di questa dimensione dell’amore (in termini cristiani, anch’essi consunti dall’uso e dall’abuso, si denomina “carità”) la versione più nobile – perché più ardua – è l’attività politica. Non ignaro della lezione di altri cristiani, Paolo VI lo ha ribadito in più occasioni: “La forma più alta di carità è la politica”.
L’abisso fra questo concetto di politica e la cronaca quotidiana misura abbastanza bene il grado di degenerazione civica in cui versiamo. Forse non ci sono stati nella storia epoche migliori. Ma questo non mi pare abbastanza per consolarci.
Come non condividere parola per parola, in ogni passaggio, in ogni riferimento culturale, sociale e filosofico, la riflessione laica e la meditazione esistenziale di Augusto Cavadi ? Resta da aggiungere l’analisi sul passaggio epocale dal razionalismo e dal relativismo alla dimensione digitale. Dall’atomo, al bit, all’algoritmo, l’umanità sta attraversando una tumultuosa metamorfosi caratterizzata da una esponenziale accelerazione scientifica e tecnologica. Dal dubito ergo sum di Cartesio si è passati al dubito ergo Google, ma finché il cardine fondamentale dell’essere resterà il pensiero, la vita sul pianeta Terra evolverà mantenendo le peculiarità fisiche, psicologiche e culturali del genere umano originario. Un genere umano che di mutazione in mutazione, fra trapianti, protesi, rigenerazioni di organi, ibernazioni, rivoluzioni alimentari e viaggi interplanetari, sarà sempre più esposto a una trasformazione genetica e cerebrale. Le poesie di Cesare Pavese, le canzoni di Mina, i Beatles o Bob Dylan, Socrate o Kant, Kierkegaard o Freud, oppure Einstein? Cosa commuoverà e su cosa si soffermerà l’uomo del tremila ?