Era davvero un esercizio inutile imparare da piccoli le poesie a memoria? O serviva a qualcosa che adesso diverse generazioni hanno irrimediabilmente perduto in una scuola vittima della furia demolitrice del Sessantotto, una stagione importantissima per tante conquiste e nuove consapevolezze, ma acritica e precipitosa nel buttare giù dalla torre quel che di necessario e indispensabile vi é nel nozionismo?
Una risposta la danno Nicola Crocetti e Vivian Lamarque, curatori del volume Bei cipressetti, cipressetti miei. Poesie per bambini vecchi e nuovi edito da Crocetti.
Due nomi di tutto rispetto, Crocetti e la Lamarque: il primo è un’irriducibile editore indipendente di poesie, ideatore tra l’altro della rivista Poesia; la seconda, vincitrice della prima edizione dedicata alla poesia del Premio Strega, è una delle voci più autentiche nel panorama italiano.
Nel libro, il cui titolo richiama i versi di Davanti San Guido di Giosue Carducci – chi dai sessant’anni in su non li ha studiati a scuola? – sono raccolte centinaia di poesie per bambini, dalle più classiche alle più moderne, da Giovanni Pascoli a Gianni Rodari.
Tutte poesie melodiose, con varietà di rime e regolarità metrica che le generazioni meno giovani sono state “costrette” a imparare a memoria, spesso non comprendendone in pieno il significato e qualche volta finendo con l’odiarle.
Eppure, tra le tante cose che si studiavano tra i banchi, mandare a mente le poesie non era il superfluo retaggio di una tradizione anacronistica priva di valore. Tutt’altro. Innanzitutto si trattava di un esercizio di memoria: quella memoria che va coltivata e potenziata soprattutto nell’età più tenera e che oggi, nell’era di Google, rischia di essere mortificata per mancanza di sollecitazioni.
Poi – e non è poco – grazie a quell’apprendimento forzato si acquisiva un patrimonio inestimabile di parole e suoni, timbri e ritmi, e chi per sensibilità era predisposto alla poesia diventava custode, inconsapevolmente, dei suoi segreti arricchendo la propria interiorità.
Chi di noi non ha provato ammirazione e invidia per un pianista che senza spartito esegue un valzer o un notturno di Chopin? Grazie allo studio, costui ha una ricchezza in più rispetto agli altri. Lo stesso vale, mutatis mutandis, per chi recita a memoria i versi della Divina Commedia o di altro capolavoro della letteratura.
E allora perché da un certo momento in poi la scuola ha messo al bando le poesie da imparare a memoria? Per limitatezza di vedute e scarsa sensibilità verso la poesia, vi risponderebbero i curatori di Bei cipressetti, cipressetti miei. Poesie per bambini vecchi e nuovi, un libro che è un inno ai versi, di cui Crocetti e la Lamarque mettono in risalto la funzione didattica nell’educare al bello.
E un altro messaggio si coglie nell’iniziativa di Crocetti e della Lamarque – non certo una mera operazione nostalgia -: ribadire che l’essenza della poesia risiede nella musicalità, con tonalità e accenti diversi nel tempo naturalmente.
Qualcosa che le nuove generazioni stentano a comprendere (quanti tra di esse i poeti algebrici e stonati) forse proprio perché non hanno mai imparato Pascoli e D’annunzio a memoria.