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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
Nell’essere umano, così come lo possiamo osservare in questa fase dell’evoluzione, convivono tendenze affettive, cooperative, e pulsioni distruttive.
Qualcuno sostiene che la madre di tutte le violenze sia la violenza maschile ai danni delle femmine: la relazione di genere costituirebbe una sorta di palestra originaria per imparare a dominare, a umiliare, a strumentalizzare.
Però, non tocchiamo ancora il prius originario: l’atteggiamento predatorio della specie umana nei confronti del restante, vasto, mondo animale.
La questione è, oggettivamente, complessa e non si lascia affrontare a livello esclusivamente emotivo, sentimentale: occorre la pazienza delle analisi scientifiche e la distanza critica della riflessione filosofica.
Tutti gli animali di cui abbiamo conoscenza – a partire da noi stessi – usano organi e abilità di cui sono dotati per difendere sé e i propri piccoli (talora il proprio branco) dagli attacchi esterni e per catturare altri animali potenzialmente commestibili: da questi punti di vista sarebbe stato impensabile che gli umani si fossero ancestralmente differenziati dal resto del mondo animale.
Perché una eventuale Intelligenza creatrice abbia potuto progettare, o comunque consentire, tanto spargimento di sangue e di sofferenza è una domanda che può interessare solo i credenti in tale Intelligenza: non mi pare possa inquietare chi osservi l’universo in una prospettiva totalmente immanentistica.
Ma oltre questo primo livello di sofferenza per così dire fisiologica, nella storia umana si è andato configurando un secondo livello di offese e di ferite per così dire aggiuntive: e questo ambito problematico interroga tutti noi pensanti (a prescindere dalle convinzioni teologiche personali).
Mi riferisco al fatto che l’essere umano, a un certo punto della sua storia, ha imparato a programmare lo sfruttamento metodico degli altri animali: a costruire recinti, prigioni, in cui allevarli sia per alimentarsene sia per utilizzarli in varie attività (dall’agricoltura alla guerra).
Il successo di questi sistemi primordiali di dominio ha incoraggiato lo schiavismo intra-specifico (ad esempio delle donne, dei minori e dei prigionieri di guerra) ?
Non so se ne abbiano indizi paleontologici, ma non mi risulterebbe sorprendente. Ciò che è certo è che, per millenni, la schiavitù è stata considerata un’istituzione logica, etica, fondata sulle leggi stesse della natura: solo da pochi secoli, e solo in linea teorica di principio, essa è stata abolita.
Ancor più recente è il movimento planetario delle donne che, sia pur in alcune regioni e sia pure a livello giuridico, ha ottenuto il riconoscimento della parità di diritti e di opportunità. Quanto ai bambini, i più indifesi tra gli indifesi, stenta a decollare la consapevolezza diffusa che essi non vadano sfruttati, anzi neppure picchiati e puniti in vario modo a scopi pedagogici.
Ma la forma basica dello schiavismo – il dominio sugli animali – è rimasta lecita giuridicamente e legittima moralmente (con qualche piccola norma contro il maltrattamento gratuito); anzi, sul piano effettuale, ha subito negli ultimi cento anni un aggravamento scandaloso.
La tecnologia ha approntato sistemi di allevamento, di riproduzione e di macellazione che hanno moltiplicato esponenzialmente la portata delle sofferenze animali, riducendone in molti casi a zero i momenti di ‘vita’ libera, naturale.
La fenomenologia di questi eccidi quotidiani è stata raccontata, con mano letterariamente magistrale, da Jonathan Safran Foer nel suo Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda , Parma 2010, pp. 363, euro 18), ma è facile intuire che atteggiamenti collettivi così diffusi e così inveterati esigono operazioni di scandaglio e di destrutturazione ancor più radicali.
E’ quanto offre, tra altri autori interessati alla questione, il filosofo Alberto Giovanni Biuso nel suo recentissimo Animalia (Villaggio Maori Edizioni, Valverde-Catania 2020, pp. 184, euro 16), con un testo impegnativo teoreticamente che vale per intero la concentrazione mentale, e direi spirituale, che esige.
Sin dall’incipit è chiaro il punto cruciale della questione: l’uomo è davvero, come si è autointerpretato vieppiù nei secoli, come il centro e il signore dell’universo?
O le scienze contemporanee ne hanno falsificato le pretese rispetto agli altri viventi (“la pretesa distintiva che vede nella cultura un esclusivo possesso dell’Homo sapiens; la pretesa autarchica che ci renderebbe autonomi dal resto del mondo vivente; la pretesa separativa che fa dei caratteri umani il vertice della vita e della sua evoluzione”)?
La risposta di Biuso alla seconda domanda è, chiaramente, affermativa, in direzione di un “superamento del paradigma vitruviano – la perfetta figura umana dentro un cerchio – a favore di una pratica antropodecentrica e postumana”.
Se questa prospettiva (che viene argomentata sin dalla Prefazione a firma di Roberto Marchesini) risultasse convincente da ogni punto di vista, si dovrebbe comunque mettere in conto la resistenza psicologica – direi psicanalitica – dell’umanità ad accettare tale ennesima ferita narcisistica: non è facile per uno che si è creduto per millenni re, e che come tale si è comportato in maniera dispotica, accettare di scendere dal trono dell’antropocentrismo “ontologico”, “epistemologico” e “etico” per vivere da comune cittadino del mondo alla pari con gli altri ospiti del pianeta.
Ma scendere dal trono per arrivare in basso sino a dove? Biuso, alla scuola di Spinoza e di Nietzsche, risponderebbe che la domanda non ha senso perché l’universo non è gerarchico, non c’è un alto e un basso. Quand’anche si dovessero nutrire (come nel mio caso) delle perplessità su questo orizzontalismo ontologico e assiologico; quand’anche si avesse il fondato sospetto che l’essere umano costituisca una sorta di punta dell’iceberg nel quale la dimensione ‘spirituale’, presente in ogni vivente, riluca in maniera più luminosa (fuor di metafora: nel quale l’autocoscienza riflessiva possa rivelare delle potenzialità assenti in altre specie animali); a questa – ipotetica – superiorità secundum quid corrisponderebbe un di più di diritti o piuttosto di doveri?
Un surplus di arbitrio o piuttosto di responsabilità? Ammesso – e non concesso – che gli altri animali abbiano meno diritti di noi perché meno consapevoli, la nostra maggiore consapevolezza non implica doveri da parte nostra nei loro confronti più netti e gravosi dei loro doveri verso di noi?
Forse non è del tutto errato considerare gli altri animali dei fratellini ‘minori’: ma, proprio se ciò fosse vero, avremmo dei motivi in più – non certo in meno – per proteggerli, curarli, aiutarli ad attraversare il passaggio terreno con il minimo di sofferenza possibile.
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