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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
In estate, per qualche giorno o per qualche settimana, per una collina vicina o per un altro continente, si lascia la propria città. E la si può guardare come dall’alto di una mongolfiera. Questo distanziamento può diventare – direbbe Pierre Hadot – un ottimo “esercizio spirituale” filosofico se ci suggerisce, ad esempio, la domanda su che rapporti ciascuno di noi intrattiene con la propria città.
Per alcuni è il rapporto del neonato con le poppe materne: ci si resta attaccati, soddisfatti del guscio protettivo, pronti a frignare ogni volta che si è frustrati in qualche necessità o desiderio. Parafrasando J. F. Kennedy, si potrebbe affermare che – per questi cittadini – la preoccupazione costante gravita intorno a ciò che la città può fare per loro, senza mai chiedersi che cosa essi possano fare per la città.
Da questa fase infantile, altri escono per passare a un atteggiamento adolescenziale di protesta e di rifiuto, di fuga: mentale e – quando possibile – fisica. Tanta insofferenza è quasi sempre, e quasi del tutto, giustificabile (un po’ come, in genere, l’insofferenza giovanile verso il sistema socio-culturale in cui ci si trova a nascere e a crescere): come sopportare un assetto fondato sulla disparità strutturale fra chi possiede molto e chi possiede poco o niente; fra chi si gode la vita senza lavorare e chi lavora tutto il giorno, e tutti i giorni, senza potersi godere la vita; fra chi ha molte strade professionali spianate dalla protezione familiare e chi viene privato della possibilità di mostrare le proprie doti; fra chi può imporre al resto della società il suo potere (specie, ma non esclusivamente, maschile) e chi deve subire senza prospettive di emancipazione (specie, ma non esclusivamente, se donna) il potere altrui …Chi emigra dalla città – specie se all’amarezza comprensibile non congiunge disprezzo per chi resta – merita rispetto.
Eppure…eppure può capitare che qualcuno, oltrepassando la fase della protesta giovanile, pervenga a vedere la sua città con animo maturo. Con occhi adulti. E’ lo sguardo di compassione di chi – pur avvertendo l’esigenza di allontanarsene periodicamente – decide di non abbandonarla per sempre. E vi ritorna per dare, con gentilezza, una mano al lento processo di evoluzione. E’ l’atteggiamento del prigioniero platonico che, avendo respirato l’aria pura della libertà e della saggezza, non si accontenta della propria situazione privilegiata e ritorna nella caverna per provare a svegliare gli antichi compagni di detenzione. E’ l’atteggiamento di Paolo Borsellino che, dopo la strage di Capaci, sa che è arrivata la sua ora e, nonostante ciò, ribadisce pubblicamente la sua volontà di seguire le orme dell’amico Giovanni Falcone e di perseverare nel lavorare a favore della sua “bellissima” e “disgraziata” Palermo. Chi perviene a questo sguardo disincantato ma amorevole, critico ma grato, non può non cercare l’alleanza con altri sguardi simili.
Da solo resterebbe sterile. E’ la tesi della celebre chiusa de Le città invisibili, di Italo Calvino, che con fatica crescente tentiamo di consegnare alle nuove generazioni: ” L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.